E tu, Kobo, terra d’Etiopia, non sei davvero il più piccolo capoluogo: da te uscirà infatti un capo che guiderà il popolo. Attingendo e parafrasando indegnamente dalle antiche espressioni delle sacre scritture mi vien da pensare che potrebbe essere già iniziato il processo di recupero di quella regione per effetto dell’interessamento e dell’iniziativa di tante persone che vi si dedicano con vera passione. Mi riferisco innanzitutto alla congregazione delle Orsoline di Gandino che operano lì dal 1975 a favore delle fasce più deboli, assistendo donne e bambini, realizzando progetti di formazione alla salute, formazione rurale e istruzione professionale. Le ho conosciute queste donne africane, suore grintose, che formano gruppi di ragazze a saper coltivare orti familiari, allevare mucche e galline, abituare all’uso di combustibili domestici alternativi alla legna sapendone ricavare un piccolo reddito. Le ho viste impegnate ad innalzare argini a secco vicino al fiume ammassando grosse pietre per proteggere il terreno coltivato. E poi ci sono almeno 60 bambine orfane da amare e accudire, che si sentono a casa loro visto che l’impostazione della comunità è quella di una grande famiglia; e scopri che queste suore sanno essere con disinvoltura anche le mamme indifferentemente delle orfane e di tanti poveri che vengono a bussare alla loro porta e altrettanti bambini che vengono aiutati nel percorso degli studi fino alla 12° classe attraverso gli aiuti dell’adozione a distanza. Il contesto territoriale si trova a 1468 metri di altitudine, al nord dell’Etiopia, in una vasta piana al confine della regione Wollo con la regione Tigray.
Entrando a Kobo la prima impressione è quella di trovarsi in un villaggio più grande del solito. Si vedono le solite casupole tirate su col fango, mentre gli edifici in muratura sono davvero pochi. Forse questo è il motivo per cui le autorità di Kobo hanno imposto alle suore in un futuro prossimo la costruzione in grande evidenza di un edificio in muratura a tre piani lungo il tracciato della strada, pena l’esproprio dell’area. Il centro urbano che conta almeno 30.000 abitanti dista 12 ore di macchina da Addis Abeba ed è appunto attraversato dalla grande via di comunicazione, tutta asfaltata, che dalla capitale arriva fino al confine con l’Eritrea, attualmente chiuso per motivi bellici.
Oltre alla zona urbana il distretto di Kobo conta 250.000 persone principalmente di etnia Amhara; ci sono gruppi minori di Oromo, Agew-Himara e Argoba. E’ proprio verso i bisogni di questo grande bacino di utenza che le suore si sono aperte dando vita ad un ospedale materno-infantile. Con l’aiuto determinante di tanti amici l’ospedale è stato costruito in otto padiglioni, con un pozzo d’acqua e un generatore, attrezzato prima con un ambulatorio e reparto (cinque stanze con 30 letti) per l’assistenza e ricovero delle partorienti a rischio e delle puerpere nei primi giorni (qui si paga un prezzo molto alto in termini di mortalità materna e infantile), poi con un reparto di radiologia, ecografo, ora con una sala operatoria (lavori ancora in corso), una sala pre-parto, la sala parto e la sala risveglio, una farmacia per l’ospedale e un’altra per la popolazione. Ora l’attività dell’ospedale comprende anche la campagna di informazione-sensibilizzazione, controllo e cura della TBC e HIV avendo la disponibilità di un’ambulanza. A volte arrivano a chiedere cure all’ospedale degli uomini Afar che non vengono fatti attendere a causa del loro caratterino difficile. E queste infaticabili suore le trovi naturalmente anche nelle corsie dell’ospedale a fare le infermiere, le ostetriche e a praticare circoncisioni. Nei corridoi interni infatti capita di trovare adolescenti con lo sguardo perso mentre tengono tra le mani confezioni di antibiotici. Non poteva mancare la figura della suora (più di una, la specialista è suor Abeba) che si occupa di agricoltura nell’appezzamento di terreno dove si coltiva con successo di tutto grazie alla possibilità di irrigazione con l’acqua di un potente pozzo frutto della collaborazione della nostra bella associazione che ha provveduto anche alla fornitura di una stalla che conta già un bel numero di mucche da latte. E si continua a costruire progetti nuovi perché non si possono porre limiti alla provvidenza. Mi torna in mente la scena di Solomon, uno dei ragazzi tirati su dalle suore, che avendo appena ricevuto da suor Abeba (incommensurabile) il pagamento per le ore di lavoro nella costruzione del terrapieno ad argine del fiume era intento a contare i soldi per dare il suo personale contributo di solidarietà in occasione di un lutto familiare che aveva colpito un suo compagno di scuola. Solomon non si sente diverso dagli altri o più sfortunato e nemmeno più un orfano perché ha vissuto in famiglia. Me ne torno in Italia più sollevata: ho parecchio da raccontare anche a mio fratello Yohannes che è nato a Kobo. Voglio vedere la sua faccia quando gli farò indossare lo scialle azzurro sopra il gonnellino.